C’è un profumo, in certe strade di Firenze, che si riconosce anche a occhi chiusi. Non è di gelsomino, né di giglio. È qualcosa di più umile, più intimo, più persistente. È il profumo del rosmarino caldo, che si sposa con il pane e con l’uvetta, che riempie le botteghe di forno e le sacrestie nei giorni di Quaresima. È il Pan di Ramerino, e chi non lo conosce non ha mai veramente attraversato la Toscana.
Ma questa non è solo la storia di un dolce. È un racconto di luce bassa tra i tetti, di mani unte d’olio e di silenzi liturgici che precedono la Pasqua. È la storia di un pane che è sopravvissuto ai secoli, alle guerre, alle mode, e che ancora oggi si prepara con la stessa lentezza con cui si aspetta la primavera.
L’origine medievale di un profumo eterno
"Ramerino" è il nome toscano del rosmarino, pianta selvatica e sacra, che cresce sulle colline, nei muretti a secco, accanto agli ulivi. I romani la chiamavano "ros marinus", rugiada di mare. Ma in Toscana ha sempre avuto un altro valore: era pianta dei morti e dei giorni santi, dell’amore eterno e dei sapori semplici.
Il Pan di Ramerino nasce nei secoli del Medioevo, quando il pane era rito e simbolo, non solo alimento. Si preparava per il Giovedì Santo, veniva benedetto in chiesa e poi distribuito come segno di purificazione, di attesa e di rinascita. Le famiglie lo mangiavano dopo la processione, ancora tiepido, con un bicchiere di vino dolce e le finestre chiuse.
Le colline che lo generano
Per capire il Pan di Ramerino bisogna uscire dalle mura, prendere una strada che sale, e addentrarsi nelle colline dell’Empolese o del Chianti Fiorentino, dove il vento muove le fronde dei cipressi e il rosmarino cresce tra i sassi, forte e resistente come un contadino d’altri tempi.
È lì che questo pane prende forma. È lì che l’aria sa di legna, di mosto, di olive appena frante. È lì che i forni — i veri forni — conservano ancora la ricetta, scritta su carta unta e tramandata come una reliquia.
Il paesaggio è geometria dolce: curve morbide, campi di grano, pievi romaniche, filari che si perdono all’orizzonte. E il Pan di Ramerino non è che una traduzione in alimento di tutto questo: la sobrietà delle forme, la ricchezza dei sapori, la devozione alla terra.
La ricetta come preghiera
Farina, uvetta, lievito madre. Olio extravergine buono, di quello spremuto a freddo a novembre. E poi il ramerino: raccolto fresco, sminuzzato, scaldato appena nell’olio perché sprigioni il suo canto.
L’impasto si lavora con pazienza. Le mani, infarinate, si muovono con gesti antichi. Si lascia lievitare sotto un panno, vicino al camino o al sole filtrato dalla finestra. Poi si formano piccole pagnotte rotonde, si incide una croce sopra — non per estetica, ma per sacralità — e si inforna.
Quando cuoce, il forno diventa chiesa. Il profumo invade ogni stanza. Le pareti lo trattengono come memoria. Il Pan di Ramerino non è un dolce da festa. È un pane della riflessione, della lentezza, del ritorno a ciò che conta.
Il pane delle mani stanche
Un tempo, nelle botteghe dei forni, gli operai lo portavano nel fazzoletto, avvolto ancora caldo, per mangiarlo seduti sul marciapiede, tra un carico e l’altro. Era il lusso dei poveri: un dolce senza eccessi, senza creme, senza orpelli. Solo il sapore del lavoro ben fatto.
C’era chi lo intingeva nel latte, chi lo mangiava con la ricotta, chi lo offriva al vicino, prima che diventasse un’usanza da catalogo. Ogni morso era una rivelazione gentile: il contrasto tra l’uvetta e il sale, tra l’olio e la crosta, tra la dolcezza e l’amaro delle erbe.
Il ramerino non muore
Oggi lo si trova nelle pasticcerie del centro e nei mercati di paese, ma chi lo fa davvero lo riconosci. Si vede dalle mani, dal forno annerito, dalla calma con cui viene sfornato. Perché il Pan di Ramerino non tollera fretta né distrazione. È un pane che pretende rispetto.
E chi lo assaggia, lo sente. Sente il sapore dei Vangeli letti sottovoce, della pioggia di marzo sulle aie, dei nonni che parlavano in dialetto e portavano in tavola solo il necessario. Il ramerino è una pianta che non muore mai, anche se la si taglia. Così il suo pane.
Sostenere chi lo fa, è sostenere chi siamo
Non è solo questione di gusti. Comprare un Pan di Ramerino fatto come si deve, da chi porta avanti la tradizione senza slogan, è un gesto di riconoscenza. Vuol dire dire grazie a chi custodisce il sapore delle stagioni, il senso della misura, la cultura dell’attesa.
Vuol dire restare umani, in un mondo che dimentica troppo in fretta.
E allora, la prossima volta che vi capita di vedere quei pani tondi, incisi a croce, con l’odore d’anice e d’olio buono, fermatevi. Prendetene uno. Portatelo a casa, spezzatelo in silenzio, condividetelo.
Perché ogni Pan di Ramerino è una fetta di Toscana che non vuole scomparire.
Storie di Io Compro Toscano
Perché il futuro ha il sapore del passato.