di un cronista in cammino, sulle tracce del tempo che fermenta
La Toscana non è solo una regione. È una liturgia. È l’Italia che si è messa l’abito della domenica e, nel farlo, ha conservato sotto la giacca l’odore della stalla e del forno a legna. È qui che, tra valli piegate dal vento, cipressi come sentinelle e borghi arrampicati su speroni d’arenaria, il tempo non è mai stato lineare. Lo capisci quando ti siedi in una casa di pietra, ti versano un bicchiere ambrato, e ti dicono: «Questo l’ha fatto mio nonno, con la madre che aveva lui...»
È il Vin Santo.
Un nome che sembra una preghiera. Ma anche un mistero. Perché non c’è una ricetta. C’è un rito. E ogni paese — anzi ogni famiglia — ne custodisce uno. Più che un vino, il Vin Santo è una filosofia. Un’attesa. Un patto con l’aria, con la muffa buona, con gli angoli più silenziosi delle case contadine. Per raccontarlo bisogna camminare. Scendere dai crinali del Casentino, attraversare la Valdichiana come fosse un vecchio respiro di zolle, salire verso le terrazze del Chianti, planare sui campi di San Gimignano, fino a sentire il respiro salmastro di Bolgheri. È un viaggio nell’anima della Toscana profonda, quella che non si mostra ma si tramanda.
Dove tutto comincia: l’aria del Casentino
Nel Casentino l’aria è diversa. Più fresca, più ruvida. Viene giù dal crinale dell’Alpe di Catenaia, rimbalza sui castagni, accarezza le vigne antiche. In questi paesi, il Vin Santo era il primo figlio del raccolto, il più atteso. A Raggiolo, Caprese Michelangelo, o sulle balze di Poppi, lo appendevano a grappoli nelle soffitte: Malvasia, Trebbiano, a volte un tocco di Occhio di Pernice per chi cercava l’ebbrezza. Lo lasciavano lì, come si fa con le domande importanti: al buio, in silenzio.
Mi racconta un anziano che incontrai a Talla: «Mio padre mi diceva: “Non si guarda l’uva che appassisce. Si ascolta”. E aveva ragione. La senti scrocchiare. Il tempo lì dentro fa il suo lavoro, e non vuole occhi indiscreti».
Nel frattempo, la vita andava avanti. Ma in quelle soffitte, in quei caratelli di legno di castagno e rovere, accadeva un prodigio. L’acqua evaporava, lo zucchero si concentrava, e l’anima del vino cominciava a cantare. Lentamente. Perché il Vin Santo non si fa. Si alleva.
Il sacro e il profano tra Valdichiana e Montepulciano
Scendendo verso la Valdichiana, la terra si fa più aperta. Grandi orizzonti, campi coltivati con geometria quasi etrusca. Ma qui il Vin Santo si fa più denso, più maturo. A Montepulciano, patria del Nobile, il Vin Santo ha il profumo dell’antica nobiltà agricola. Lo trovi nei conventi, nei casolari dove il tempo sembra andato in pensione.
Qui, come altrove, il nome è tutto un enigma. C’è chi dice venga dal suo uso liturgico, come vino da messa. Ma c’è anche la leggenda del Concilio di Firenze del 1439, quando un frate greco assaggiò un vino dolce e disse “Xantos”, pensando alla sua isola. I toscani capirono “Santo”, e da lì nacque il mito.
Nelle cantine di Montepulciano e Cortona, il Vin Santo riposa nei vinsantaia: piccole stanze dove la temperatura cambia con le stagioni, e il vino si adatta, come fa il contadino con la terra. A ogni sbalzo, un cambio di nota. È un jazz lento, in botte piccola.
Mi fermai a dormire in un agriturismo fuori da Torrita di Siena. La mattina, il contadino mi offrì una fetta di pane con fegatelli e un bicchierino dorato. «Per me — mi disse — il Vin Santo è mio nonno che mi guarda. Se apro una bottiglia, è per lui.»
Il cuore del rito: il Chianti nascosto
Il Chianti ha la fama che si merita. Ma il Vin Santo non lo trovi nelle cantine patinate per turisti. Lo trovi nei fienili trasformati in santuari del tempo, a Lamole, a Volpaia, a Panzano. È il vino che non si vende. Si dona. Si apre quando nasce un figlio, quando si sposa una nipote, quando torna un amico lontano.
Qui il Vin Santo è identità. È il testimone di una civiltà contadina che ha resistito alla morsa del turismo. La Malvasia di qui ha un che di speziato, quasi orientale, e il Trebbiano profuma di tiglio e mandorle. Ma è il tempo a fare la differenza: almeno tre anni in caratello, a volte cinque, a volte sette. Nessuno ha fretta.
Un vecchio contadino di Greve mi disse: «Il Vin Santo è come una lettera che hai scritto da giovane e che apri da vecchio. Dentro c’è chi eri, e chi pensavi saresti diventato».
Eccolo, il miracolo. In una terra dove tutto è visibile, il Vin Santo è invisibile. Vive in luoghi nascosti, in botti dimenticate, in gesti ripetuti per fede, non per business.
San Gimignano, Volterra e la memoria verticale
A San Gimignano le torri sembrano dita alzate verso Dio. Qui, il Vin Santo si fa anche con la Vernaccia, dando un tocco minerale, quasi marino. In queste zone, più che altrove, il vino diventa un atto di resistenza culturale. A Volterra lo chiamano ancora “vino da meditazione”, e spesso viene accompagnato da dolci alle noci o alle castagne, frutti poveri ma sapienti.
Camminando tra queste colline mi accorsi che il Vin Santo è un vino verticale. Non solo per le torri, ma per la stratificazione della memoria. Ogni sorso è un viaggio tra le generazioni. Un nipote beve ciò che il nonno non ha mai aperto, perché lo considerava troppo giovane per capire.
Maremma e Costa: l’ultima frontiera
E poi c’è la costa. Bolgheri, Bibbona, Suvereto. La patria dei grandi rossi toscani, certo. Ma anche qui il Vin Santo resiste. Ha un’anima più salina, quasi marina. La brezza del Tirreno entra nei vinsantaia, portando con sé storie di barche e tramonti.
Un pescatore di Castagneto mi raccontò che il Vin Santo lo aprono solo il giorno in cui si ripara la barca. «È per ringraziare il mare — mi disse. — E anche per dimenticare un po’ la fatica.»
Nella Maremma più interna, verso Scansano, il Vin Santo prende un colore più intenso. L’aria qui è più secca, il sole più spietato. Ma il risultato è un vino che sa di fico secco, di miele di corbezzolo, di legna bagnata. Più che un vino, un piccolo romanzo da bere a piccoli sorsi.
Epilogo: il tempo che resta
Alla fine del viaggio, capisci che il Vin Santo non è nato per essere venduto. È nato per aspettare. È il contrario della modernità, del “tutto e subito”. È un vino che chiede rispetto, silenzio, attenzione. Ti guarda dal fondo del bicchiere e sembra chiederti: «Tu, quanto tempo sei disposto ad aspettare?»
La Toscana, con le sue vigne aggrappate ai declivi, i suoi paesi che sembrano emersi da una fiaba contadina, è la terra giusta per questo vino. Perché qui tutto è ritmo lento, cura, ritorno.
Il Vin Santo è la Toscana che non si vede nelle brochure. È quella che si sussurra tra le mura domestiche, che si apre solo agli amici veri. È il vino dei nonni, dei silenzi, dei tramonti. Un vino che sa di casa, di memoria, di eternità domestica.
E allora lo capisci: il Vin Santo non è solo un vino. È una dichiarazione di fede nel tempo. Un piccolo miracolo che la Toscana continua a compiere, anno dopo anno, nella parte più sacra della sua anima.